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Era l’alba quando Cristofer piantò nella terra umida del prato l’incudine.
I suoi uomini tolsero dalle spalle le falci e staccarono i manici dalle lame deponendole vicino al battitore che nel frattempo si era seduto a gambe aperte davanti all’incudine. Nessuno fiatava, ogni uomo era solo coi suoi pensieri, ma tutti aspettavano che la campana dell’Ave Maria col suo suono benedetto annunciasse lunghi giorni di sole.
Quando gli ultimi rintocchi si spensero dolcemente sui prati Biagio, primo falciatore alzò gli occhi al cielo e pregò brevemente Dio che tenesse lontani fulmini e temporali, poi entrò nel grande prato dove l’erba era alta fino alle ginocchia.
– “ E’ un grand maggengo” disse strappando a piene mani le cime più alte del trifoglio, la medica e le ombrellifere.
– “ Sono in fiore Cristofer, batti pure le falci che l’erba è matura al punto giusto”
Non aveva ancora finito di parlare che lo squillante suono della falce, battuta sull’incudine dal martello riempì il silenzio dell’alba.
Cristofer chino sull’incudine magico batteva le falci per i suoi uomini e quella melodia ferrigna come una lunga carezza volò sui prati ad annunciare l’arrivo dei falciatori.
Biagio per primo, dopo aver ravvivato il filo della lama con la cote entrò nel prato.
– “ Sembra che tagli il burro” gridò meravigliato per come la falce entrava nell’erba.
– “ Non ho mai provato una falce di Dronero forgiata a mano, sembra un rasoio”
A turno gli altri gli si accodarono, Cristofer li guardò mentre si allontanavano falciando ognuno una fascia larga come due braccia. Erano uomini straordinari e insieme il loro muoversi a pendolo aveva assunto un’armonia ancestrale.
L’alba si sciolse nella luce del giorno e il sole spuntando dal valico accese meravigliosi riflessi sulle stille di rugiada appese ai fili dell’erba mentre il profumo del maggengo tagliato di fresco inebriò le rondini a caccia d’insetti che volavano sopra i falciatori.
– “ Gnè sega’l fè col fiur” – cantava Biagio e la sua voce alta era addolcita dal sottile sfregolio delle sei falci che tagliavano l’erba.
– “ Trescà, baregà, strosegà” – gridarono gli acuti strilli dei bambini che si rincorrevano gioiosi scavalcando a grandi salti le righe gonfie d’erba che i falciatori si lasciavano alle spalle.
– “ Trafò le anolane, sparnnegà, porta a cà al fè”
Le vibranti voci delle donne salivano squillanti verso il cielo mentre coi forconi spargevano il maggengo per farlo seccare.
Verso mezzodì il grande prato era falciato, il sole picchiava e nella calura solo le allodole alte nel cielo, ubriache di luce cantavano d’amore.
I falciatori, appese le falci sui rami di un gelso si lavarono il sudore nel ruscello che scorreva al margine del prato poi fecero circolo sotto l’ombra di un noce.
Avevano falciato dall’alba senza mai fermarsi, le loro facce erano arrossate, segnate dalla fatica, si sedettero stanchi tirando lunghi respiri di sollievo, mentre l’aria scivolando lieve sulla distesa del prato raccoglieva l’intenso profumo del fieno.
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